Sagapò, il teatro che vuole essere utile

L’associazione dal 2009 propone attività a sfondo sociale per bambini e adulti
Chiara Visca: “A Srebrenica siamo riusciti a riportare l’allegria per le strade”

di Veronica Tonidandel

15 sagapo

Psicologi, fumettisti, musicisti, cantanti, insegnanti, studenti, operatori teatrali, storyteller e attori. Sono alcune delle figure che gravitano intorno al mondo di Sagapò Teatro, un’associazione che vanta un ricco e variegato gruppo di soci e dal 2009 realizza attività a sfondo sociale. La presidentessa Chiara Visca racconta le origini dell’associazione e i sogni per il futuro.

Chiara, di cosa si occupa Sagapò?
Abbiamo iniziato ad operare 10 anni fa con attività teatrali nelle scuole, da allora siamo cresciuti e abbiamo fatto molto. Oggi Sagapò si muove su tre aree d’intervento: teatro sociale con particolare attenzione alle problematiche femminili, teatro interculturale attraverso scambi, viaggi e programmi di collaborazione internazionale, e la formazione di studenti e adulti.

Come ha preso vita il vostro gruppo?
Nei primi anni di vita dell’associazione abbiamo lavorato per cinque estati consecutive a Srebrenica, assieme alla Fondazione Alexander Langer e ad un gruppo di giovani altoatesini. Si tratta di un paesino della Bosnia che è stato teatro di un genocidio nel 1995. Qui le famiglie vittime di violenze vivono a fianco degli assassini dei propri familiari. Le vittime erano prevalentemente ragazzi e uomini, di conseguenza oggi ci sono molte donne sole, che convivono da anni con pesanti traumi che spesso vengono trasmessi alle nuove generazioni. Credo che l’anima dell’associazione si sia costituita in gran parte lì.

Che tipo di attività avete svolto?
Il progetto cercava di portare la gente per le strade di Srebrenica, perché nel 2007, quando abbiamo iniziato ad andare là, non c’era mai nessuno fuori casa. Lo abbiamo fatto ad esempio organizzando delle coloratissime parate, giochi, animazione e piccole scenette di clownerie. Abbiamo operato molto anche con i bambini, che presentano un disturbo da stress post-traumatico intergenerazionale. La prima settimana l’abbiamo passata a farci picchiare, perché i bambini non avevano idea di cosa fosse un contatto, non avevano mai visto un clown in vita loro, non avevano mai visto gente che gli dava retta, che li ascoltava, che si prendeva cura di loro. Alla fine della permanenza non ci lasciavano più andare.

L’articolo completo è disponibile sul numero di luglio-agosto di METROpolis – Cultura & Sociale a Bolzano, in vendita in tutte le edicole di Bolzano e in abbonamento.

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